Riflettere insieme sul senso della “pena”
di Antonella Valer e Amedeo Savoia
Riflettere insieme sul senso della “pena” e sul modo più efficace di sanzionare il male commesso, a partire dalle “storie”, è stato l’obiettivo generale del progetto “Dalla Viva Voce” promosso dall’Associazione “Il Gioco degli Specchi.” Nella prima parte dell’anno, e dopo un percorso di preparazione e formazione elaborato insieme ai docenti di sei diverse scuole superiori trentine, duecentocinquanta studenti hanno avuto la possibilità di recarsi nel carcere Due Palazzi di Padova per ascoltare le testimonianze delle persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti. Il progetto “scuola-carcere”, che Ristretti Orizzonti porta avanti da dieci anni, ha lo scopo di offrire agli studenti tre storie di vita che sono state segnate dall’aver commesso un reato e rispondere alle domande dei ragazzi. Le storie mostrano come non sempre siano distanti dalle “nostre vite normali” e possano invece riguardarci da vicino. Servono a cercare di capire che cosa è successo, allo scopo di ridurre la possibilità che accada, prevenire e rendere consapevoli chi le ascolta. Allo stesso tempo il racconto è fonte di presa di coscienza e assunzione di responsabilità, dunque parte di un percorso di rieducazione per chi racconta. Leggendo i commenti degli studenti emerge come questi incontri abbiano lasciato il segno. Scrive Gabriele di ritorno da Padova “ […] ho distrutto i pregiudizi sui carcerati muscolosi, pieni di tatuaggi, maleducati, che parlano male l’italiano, che fumano molto […] ho imparato che le storie di omicidi che troviamo sul web, sui giornali o in televisione sono “finte”, che non esiste il raptus, ma che c’è un lungo processo caratterizzato dalla sofferenza e dalla rabbia prima di arrivare a uccidere una persona. Ho imparato che i detenuti non sono dei mostri che vanno giudicati per il loro reato e che se in carcere non vengono aiutati ed ascoltati la loro detenzione può solo incattivirli e portarli a commettere altri reati”. E Arianna: “mi ha colpito molto la grande consapevolezza dei detenuti che abbiamo ascoltato di ciò che avevano fatto e ciò denota il fatto che hanno seguito un buon percorso per arrivare a questo punto. Mi ha colpito […] che possano sentire le loro famiglie così poco e questo secondo me è un grande errore, poiché cercando di diminuire sempre di più le loro relazioni con il mondo esterno finiscono per estraniarli […] e per tagliarli fuori del tutto e una volta usciti dal carcere non avranno nessuno su cui contare. Mi è piaciuta molto l’idea di un carcere in cui il detenuto non rimane sempre solo nella sua cella, ma si attiva e partecipa ad attività con lo scopo di renderlo consapevole di ciò che ha fatto e di fargli comprendere gli sbagli affinché una volta uscito non li ricommetta” E ancora Emilia: “Penso che sarà un’esperienza che non dimenticherò facilmente e che mi sarà utile nel prendere determinate scelte. Sono una persona vivace e mi piace fare festa, in modo positivo; ma può succedere a volte che mi faccia prendere la mano e segua strade sbagliate”. La seconda fase del progetto ha invece visto come protagonisti tre persone che sono state detenute nel carcere di Trento, che hanno partecipato a un laboratorio di scrittura autobiografica per poter essere in grado, come nella Redazione di Ristretti Orizzonti, di raccontare la propria storia e renderla utile a chi la ascolta. Dopo aver incontrato la Redazione dentro il carcere di Padova e aver fatto “tirocinio” in alcuni incontri con le scuole, all’interno di un gruppo di lavoro misto hanno provato a raccontare, scrivere la propria storia e a prepararsi, fino a sperimentare il racconto davanti ad alcuni studenti delle scuole trentine (superiori e medie). Hanno così sperimentato di persona che il racconto fa bene a chi lo fa e a chi lo ascolta, in un faticoso ma fruttuoso incontro. Come testimoniano gli studenti di una classe prima di un istituto professionale della città: “L’incontro ci insegna a non fare nella nostra vita gli errori che hanno commesso loro. Quando ci hanno raccontato le loro storie mi sono venuti dei brividi alla schiena. Ho provato tristezza” “Mentre raccontavano la loro vita passata, ero molto interessata, ma anche sorpresa, perché molti ragazzi, tuttora, fanno ciò che loro hanno fatto, e i rischi che corrono sono davvero tanti”. Ora che la strada è aperta, le testimonianze “trentine” potranno essere offerte anche ad altri. Anche perché, durante quest’anno, i partecipanti al progetto hanno deciso di dare vita ad una vera e propria associazione di volontariato: “Dalla viva voce”, con la quale continueranno il lavoro di sensibilizzazione. Il carcere appartiene alla città, ci riguarda, anche se tendiamo ad allontanarlo. L’associazione vuole fare tesoro dell’esperienza maturata nel progetto e dare il proprio contributo a una migliore interazione fra la cittadinanza e l’ambiente carcerario. Nella convinzione che la qualità dei percorsi rieducativi in un carcere - e dunque una maggiore sicurezza di tutti - dipende in buona misura dal coinvolgimento del territorio in cui il carcere è collocato: in termini di conoscenza, formazione, assistenza, opportunità di lavoro, ma anche di crescita umana e civile.